Il diritto al compenso dell’Amministratore di società di capitali: presunzione di onerosità e rinuncia
di Avv. Carlo Mìlicia
Con l’accettazione dell’incarico l’Amministratore di una società di capitali acquisisce, di regola, il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione del ruolo affidatogli.
Nelle S.p.a. tale diritto è espressamente previsto dagli artt. 2389 c.c. e 2364, n. 3), mentre per quanto concerne le s.r.l., in assenza di espresse disposizioni del medesimo tenore, il diritto al compenso viene ricavato dall’applicazione analogico-estensiva degli artt. 1709 e 2389 c.c..
Sotto quest’ultimo profilo, è possibile rivenire giurisprudenza delle Sezioni Imprese confermative del fatto che, “non recando il codice civile alcuna disciplina sul punto con riguardo alla società a responsabilità limitata, possono ad essa applicarsi in via analogica le previsioni inerenti le società per azioni, fra cui gli artt. 2364 e 2389 c.c. (cfr. ex multis Trib. Milano, Sez. Imp., sentenza n. 3528/2020) (Tribunale Bolzano Sez. spec. Impresa, 12/02/2022, n. 159).
Sulla scorta di tali principi normativi, la giurisprudenza è costante nell’affermare che il contratto derivante dall’accettazione della nomina di Amministratore nelle società di capitali si presume oneroso, essendo senz’altro applicabile alla materia societaria la norma di carattere generale cui all’art. 1709 cod. civ., che stabilisce la presunzione di onerosità dell’agire gestorio e che costituisce di fatto il principio su cui si fonda l’art. 2389 cod. civ. in materia di società per azioni.
Sempre in ragione del suindicato principio di onerosità, la giurisprudenza esclude che “il diritto a percepire il compenso rimanga subordinato a una richiesta che l’amministratore rivolga alla società amministrata durante lo svolgimento del relativo incarico. Anche laddove difetti una disposizione dell’atto costitutivo e l’assemblea si rifiuti od ometta di stabilire il compenso spettante all’amministratore ovvero lo determini in misura inadeguata, dunque, quest’ultimo è abilitato a richiederne al giudice la determinazione, eventualmente in via equitativa, purché alleghi e provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte” (Tribunale Brescia Sez. spec. Impresa, 22/02/2022, n. 415; cfr. anche Cassazione civile sez. VI, 03/10/2018, n. 24139).
Essendo comunque il diritto dell’Amministratore a percepire il compenso un diritto disponibile e rinunciabile, sono del tutto legittime previsioni statutarie o delibere assembleari che prevedano la gratuità dell’incarico (cfr. Cassazione civile sez. lav., 23/07/2021, n. 21172; Cassazione civile 9 gennaio 2019, n. 285).
Quanto alla rinuncia al compenso, la giurisprudenza di legittimità chiarisce che l’atto abdicativo può trovare espressione in un comportamento concludente, purché si desuma da circostanze esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto dall’Amministratore rivelando in modo univoco una volontà dismissiva del relativo diritto.
Ora, se da un lato è pacifico che l’Amministratore possa rinunciare al diritto anche tacitamente, da un altro lato le maggiori criticità sorgono nell’individuare quei contegni dell’Amministratore idonei a rappresentare un’inequivocabile volontà a rinunciare al compenso per l’attività gestoria allo stesso demandata.
Sotto questo profilo, basti rilevare che accanto alla diffusa giurisprudenza delle sezioni specializzate che afferma l’inidoneità “ad integrare rinuncia tacita l’omessa richiesta del compenso o il mancato inserimento di un’apposita voce per il compenso nel bilancio” (Tribunale Bolzano Sez. spec. Impresa, 12/02/2022, n. 159), vi sono pronunce di diverso tenore per cui “se lo statuto di una s.r.l. prevede che il compenso annuale dell’amministratore – che sia anche socio – possa essere stabilito dall’assemblea dei soci, ma l’amministratore interessato non si adopera per spronare l’approvazione di tale delibera nell’inerzia dell’assemblea, si può ritenere che il suo atteggiamento integri un comportamento concludente tramite il quale rinuncia tacitamente all’assegnazione di compensi per l’attività svolta” (Trib. Roma, Sez. Impr., sent. 29.03.2016).
In particolare, l’inerzia o il silenzio dell’Amministratore sulla percezione dei propri compensi possono integrare un comportamento concludente rivelatore di una volontà abdicativa del relativo diritto là dove si protraggano per un arco temporale assai consistente e fino alle sue dimissioni (cfr. Cassazione civile sez. lav., 12/09/2019, n. 22802)
È dunque evidente che al fine di verificare l’effettiva volontà dell’Amministratore di rinunciare al diritto al compenso occorrerà svolgere una disamina che non si limiti alla mera valutazione dell’inerzia, ma prenda in considerazione tutte le circostanze e le condotte qualificanti e significative nello svolgimento rapporto mediante l’applicazione degli ordinari canoni di ragionevolezza, correttezza e buona fede.
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